Data storytelling: raccontare storie attraverso i dati

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Noi tutti diciamo che un’immagine vale più di mille parole. Probabilmente questo modo di dire ha anche un fondo di verità. La forza evocativa di un’immagine è fuori discussione: la capacità di narrare storie più incredibili attraverso le immagini ha affascinato l’uomo fin dalla preistoria, molti secoli prima che la scrittura facesse capolino nella storia del mondo.

Quando parliamo di storytelling visuale, però, tutti noi associamo questo termine ad un’immagine – che sia una foto o un’illustrazione – fatta di soggetti concreti, immediatamente riconoscibili e decifrabili ad un livello molto elementare.

Eppure, ci sono moltissimi modi di narrare una storia, perché le storie in realtà sono ovunque intorno a noi.

Persino nei nostri database.

Ogni database è un immenso contenitore di storie: narrazioni che aspettano qualcuno che le scopra, le porti alla luce, dia loro concretezza e visibilità. Analizzare i dati vuol dire quindi far emergere dei racconti: racconti che possono essere testuali, certo, ma che il più delle volte si preferisce siano visuali.

L’analista dei dati ha quindi essenzialmente il compito di generare dei racconti.

Tutte le volte che analizziamo dei dati, creiamo delle storie. Tutte le volte che osserviamo un grafico, fruiamo di una narrazione.

Il bello è che le storie, le narrazioni sono ovunque. Le troviamo tutte le volte che osserviamo un grafico meteo (o chiediamo al nostro assistente vocale domestico: “Che tempo farà domani?”). Le vediamo in ogni mappa del traffico, in ogni tabella dei treni in partenza. Ogni volta che dei dati vengono visualizzati, assumono una caratteristica necessariamente narrativa.

È tanto vero che le narrazioni dei dati sono ovunque, che spesso ci dimentichiamo persino di averci a che fare.

Questa mancanza di consapevolezza trova il suo momento critico nel momento in cui siamo noi stessi chiamati a costruire delle storie con i dati. Creatori noi stessi di racconti, veniamo presi dalla sindrome del “grafico bianco”, non sapendo come muoverci per dare un senso a ciò che stiamo visualizzando. Quale grafico utilizzare? In che modo?

Davanti a queste domande, la maggior parte di noi reagisce di solito con noncuranza, delegando di fatto al destinatario delle nostre elaborazioni il compito di interpretarle. Insomma, rischiamo di fare un po’ come uno scrittore che invece di pubblicare un racconto mettesse in un sacchetto tantissime parole alla rinfusa, dando al lettore il compito di ricostruire la trama e dare un senso logico al testo.

Inconsapevolmente, ogni volta che creiamo un grafico, un racconto visuale dei dati, deleghiamo al nostro committente il lavoro di trovare un senso ai dati al posto nostro.

Inutile dire quanto ciò possa essere pernicioso. Mi è capitato di collaborare con una grande impresa il cui amministratore delegato, intervistato in un TG nazionale, si era trovato di fronte a una tabella di dati (provenienti dal suo ufficio stampa) scritta in modo talmente incomprensibile da generare fastidiosissimi equivoci nel corso dell’intervista. La giornalista che moderava il confronto, infatti, aveva interpretato le etichette della tabella in modo del tutto fuorviante.

Succede ai grandi livelli. Succede a tutti i livelli.

Comunicare con la visualizzazione dei dati

Per far “parlare” efficacemente una visualizzazione grafica dei nostri dati, per dare un senso e un valore a ciò che stiamo analizzando occorre quindi non solo saper realizzare un grafico, ma anche imparare a dargli un significato il più possibile univoco. Se infatti una data visualization è un mezzo attraverso il quale diffondere un messaggio, sarà necessario che questo messaggio giunga a destinazione in modo più chiaro possibile, minimizzando le possibili distorsioni e le fonti di rumore per amplificare al contrario le informazioni più significative.

Siamo nel territorio del data storytelling, della narrazione coerente attraverso i dati.

Come fare dunque a rendere il più possibile efficace la comunicazione attraverso i dati?

Difficile, purtroppo, dare una risposta in poche righe – non a caso ho scritto un intero libro a riguardo!

Qualche consiglio però voglio provare a dartelo lo stesso.

Less is more

Innanzi tutto, per creare una visualizzazione efficace è necessario ridurre il più possibile il carico cognitivo che essa porta con sé.

In gergo questa operazione si chiama decluttering: è l’attività di ripulire i grafici. Più precisamente, ad eliminare tutti quegli elementi non necessari e anzi addirittura dannosi affinché la comunicazione sia veramente efficace. Facciamo una prova: quanto ci vuole a decifrare questo grafico?

decluttering

Immagina di essere sulla porta di una stanza, all’interno c’è una persona che deve dirti una cosa. Sfortunatamente, in quella stessa stanza ci sono tantissime persone che parlano contemporaneamente.

grafico

Ascoltare il messaggio che quella persona deve darti non è detto sia impossibile: ma di sicuro è faticoso e rischi di comprenderlo male. Immagina adesso di poter far uscire tutti gli altri. Non sarebbe la soluzione ideale?

Il decluttering funziona esattamente in questo modo.

Ogni volta che osserviamo un grafico, il nostro cervello osserva e si sforza di interpretare (anche senza che ne siamo consapevoli) ogni elemento: ogni linea, ogni scritta, ogni forma, ogni colore. Vuol dire che fa uno sforzo cognitivo enorme.

Se quegli elementi non portano con sé informazioni importanti, o se quelle informazioni possono essere comunicate usando meno elementi, vuol dire che il grafico è appesantito da rumore di fondo, che impedisce la corretta fruizione del suo contenuto primario – ossia del suo messaggio.

Eliminare il superfluo significa quindi liberarsi da tutto quel rumore di fondo, quel “vociare” nella stanza, e far emergere l’informazione davvero importante, permettendo a chi osserva il grafico di comprendere immediatamente il messaggio che stiamo comunicando. Ad esempio in questo modo:

Sfrutta il cervello del tuo interlocutore

Per comprendere questo concetto, ti chiedo di osservare per qualche secondo l’immagine riportata qui sotto.

sequenza-numerica

L’immagine rappresenta una sequenza di numeri.

Torna ad osservarla ancora per un momento.

Ora, se ti chiedessi di dirmi immediatamente quanti “5” hai contato nell’immagine, saresti in grado di rispondermi?

Sono sicuro di no. Del resto, se anche adesso ti chiedessi di tornare a guardare l’immagine con l’obiettivo di contare i numeri 5, non potesti portare a termine l’operazione in modo immediato.

Il motivo è semplice: questo numero non è stato in alcun modo caratterizzato allo scopo di renderlo immediatamente distinguibile dalle altre cifre. In queste condizioni, il nostro cervello percepisce l’insieme dei numeri come un indifferenziato, dove non esistono gerarchie significative in grado di orientare la nostra visione.

Prova adesso ad osservare l’immagine qui sotto.

 sequenza

Stavolta contare i numeri 5 sarà stato indubbiamente molto più semplice.

Cosa è cambiato?

Semplicemente, è stata usata una proprietà del colore, detta intensità, per far emergere il pattern significativo dai distrattori presenti.

In questo modo, i neuroni presenti nella tua corteccia visiva primaria sono stati capaci di processare l’informazione dell’esistenza dei numeri 5 in modo immediato.

Gran parte dei processi di acquisizione delle informazioni contenute nelle immagini segue questo tipo di percorso. Per far parlare un’immagine, per dare un senso al suo contenuto dobbiamo quindi sfruttare i meccanismi attraverso i quali il cervello umano “legge” lo stimolo visuale ben prima che la parte razionale prenda il sopravvento. Questi meccanismi sono ben noti agli psicologi: sono quelli, ad esempio, studiati dalla Gestalt all’inizio del secolo scorso. Saperli usare sapientemente per comporre un grafico vuol dire fornire una guida sicura al nostro interlocutore, che potrà in questo modo acquisire le informazioni importanti, tralasciando il resto.

Valorizza i contenuti testuali

Un pensiero comune così diffuso da diventare una frase fatta è che le immagini hanno sostituito le parole.

Eppure sarebbe forse più corretto riferirsi a questo pensiero comune come luogo comune non necessariamente vero, dettato più da superficialità e approssimazione di pensiero che da realtà.

Siamo inevitabilmente in una società delle immagini, ragioniamo visivamente molto più dei nostri genitori o dei nostri nonni: eppure non per questo le parole scritte sono sparite, non per questo abbiamo smesso di comunicare oralmente. Di parole continuiamo a scriverne, a leggerne, a produrne e a usufruirne ogni giorno.

Per questo motivo chi lavora con la data visualization non può cullarsi nell’illusione di poter lavorare solo con il visuale: al contrario, deve saper padroneggiare anche la componente testuale. Il rapporto tra testo e immagine, del resto, è speculare: se da un lato le visualizzazioni servono a sintetizzare ed esprimere con immediatezza quanto scritto nei testi, d’altra parte il testo può fare altrettanto, evidenziando ed esplicandone i contenuti. Che significa? Che il testo può aiutare molto. Di più: che il testo spesso è la chiave di volta di una visualizzazione straordinariamente perfetta.

La data visualization perfetta è un felice incontro di testo e immagine: alterna sapientemente contenuto scritto e visuale, parole e icone. Il testo non solo deve essere presente in un grafico, ma addirittura lo valorizza.

Cosa vuol dire Data Storytelling

Data Storytelling significa, letteralmente, raccontare una storia attraverso i dati. Concretamente, però, consiste nel leggere milioni di righe di dati, esplorare le relazioni tra loro, trovare i pattern significativi e, attraverso la Data Visualization, raccontarli in maniera tale da fornire informazioni che sappiano guidare decisioni, scelte, azioni.

Per fare questo, è necessario che chi compone un grafico o una reportistica sia in grado di determinare con chiarezza il messaggio che intende trasmettere e abbia le competenze per poter trasformare questo messaggio in un’immagine facilmente decodificabile per il destinatario dell’informazione.

Un grafico che non trasmette informazioni è in genere inutile. Di più, è dannoso, perché è impossibile non comunicare. Nella migliore delle ipotesi, quindi, ci troveremo a che fare con informazioni trasmesse in modo errato e comprese in modo fuorviante. Chi vorrebbe trovarsi a fronteggiare una situazione del genere?

 

Fabio Piccigallo

Sito personale : fabiopiccigallo.com
Business Development Manager, formatore e consulente, si occupa di direct marketing da oltre 15 anni. Fondatore di OnMarketing, agenzia di servizi di marketing digitale.

Libri scritti da Fabio Piccigallo

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